venerdì 28 dicembre 2012

Il mito si fa realtà alla Reggia di Caserta?








Il treno che mi ha portato da Salerno a Caserta ferma anche a Nola, così ho potuto rendere omaggio al suo cittadino più illustre, Giordano Bruno. Nel 1585 Bruno aveva pubblicato De gli eroici furori, in cui aveva introdotto la nuova figura del furioso: se il sapiente è colui che sa contemplare con distacco le vicissitudini del mondo, il furioso è colui che sa cogliere l’unità della natura e raggiungere la felicità nella sua forma più piena. 


Questo non significa che il furioso possa superare i limiti umani e vedere il Dio-luce assoluto; egli rimane nell'ombra di Dio, che è l'universo, ma ne vede l'unità. Di più un umano non può ottenere. L'eroico furore non è una forma di misticismo, l'uomo non si può "indiare", così come Dio, secondo l'antitrinitario Bruno, non si può incarnare. Il furioso, che aspira a Dio, può fondersi con l'Uno, il Tutto, soltanto riconoscendo la propria unità con la Natura, che del Dio-Uno è il riflesso.
Per chiarire questo passaggio Bruno riprende dalla mitologia greca la vicenda di Atteone, un cacciatore che, colpevole di essere riuscito a vedere l'immagine dell'amata dea Diana riflessa in uno specchio d'acqua, venne dalla dea tramutato in un cervo, per poi essere inseguito e sbranato dai propri stessi cani. Bruno spiega che Atteone rappresenta «l'intelletto intento alla caccia della divina sapienza, all’apprensione della beltà divina»: poiché l'intelletto diventa ciò che apprende, esso si confonde con la Natura dopo averne contemplato la totalità, simboleggiata da Diana.
Bruno intende la conoscenza come un rapporto d’amore con l’oggetto dello studio, in questo caso la Natura universalmente animata. Il furioso è mosso dal desiderio amoroso verso ogni sua parte e la conoscenza, che è identificazione con l’oggetto conosciuto, è per lui fonte di gioia: così come Atteone diviene preda della propria caccia, egli scopre che non è più necessario cercare fuori di sé la divinità.



Nel 1752 Vanvitelli volle il mito di Diana e Atteone rappresentato in un gruppo scultoreo nella reggia commissionatagli da Carlo di Borbone, per la precisione là dove il parco si chiude con una scenografica cascata che scende dalle montagne retrostanti grazie ad un acquedotto appositamente scavato.




Verso l'orario di chiusura, poco prima del tramonto, quando i visitatori si sono ormai tutti incamminati per tornare alla reggia, i cani da caccia cominciano a muoversi e cercano veramente di sbranare Atteone, il quale prova a sfuggire i loro morsi e, contemporaneamente, la condizione marmorea in cui è da secoli imprigionato.